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Durante l’amore, e anche dopo

Ogni volta che rimanevi insonne nel letto – ed ultimamente accadeva spesso – avevi l’abitudine di cacciare il fluire di pensieri con qualche parola mormorata che non aveva effetto. Il disagio non durava moltissimo, perché alle prime luci del giorno qualcosa in te ricordava di doversi assopire. Così ogni volta che la sognavi l’avevi pensata, in quei fiumi di idee notturne, almeno per un secondo. Bastava visualizzarla: non solo nei movimenti ma nelle parole che pronunciava nei tuoi ricordi, o nel sapore dei momenti condivisi in passato, bastavano quelle brevi immagini a popolare di lei almeno la metà dei tuoi sogni.

Ti aveva allontanata dalla sua vita anni addietro e nel frattempo, in quei quadri onirici e colmi di realismo, la vostra storia continuava. Prima venivi ignorata, poi perdonavi ed infine eri perdonata. Per decine di volte facevate la pace e tornavate ad essere delle buone amiche, le stesse che eravate un tempo, durante l’amore e anche prima, e anche dopo. Così la vostra storia aveva confini molto più lontani di quelli che lei aveva disposto, confini che divennero il rifugio del tempo, perché esso lì non esisteva che come ricordo lontano, ed ogni notte si rinnovava offrendo nuove immagini al racconto di voi due.

Non vi siete più riviste, sentite solo a volte, così di rado che sarebbe stato più semplice dimenticarsi. Solo tu sai quante volte l’hai incontrata ancora dopo quel giorno, quante volte l’hai riabbracciata e quante volte le sei andata incontro con l’entusiasmo che avresti davvero, se solo fossi certa di non essere indesiderata. Così ieri notte la sognavi, aveva i capelli corti e neri come la prima volta, il vestito blu e il portamento sicuro che avevi sempre sperato di vederle addosso. E viveva in un’enorme nave, attraversava il mondo, era l’ignaro capitano, era la Donna che il futuro già allora prometteva. La guardavi illuminarsi e restavi a terra, mentre la nave salpava.

E’ andata bene così, anche se è andata male, anche se eravate felici e poi non lo siete state più. Poteva andare solo così, perché dovevi avere la certezza che amare volesse dire così tanto, e che finire significasse così poco.

 

durante amore e anche dopo Immagine presa qui: http://www.deviantart.com/art/Dejeuner-sur-l-herbe-123017588/caption

Più di sette minuti e mezzo

C’è della luce arancione che riempie la stanza, e con lei non il silenzio ma il rumore regolare delle auto che passano sulla statale di Melzo. Fuori non è affatto buio, una foresta di lampioni punteggia la notte frizzante di questa macchia urbana che stasera mi ospita per la seconda volta ed un rettangolo fatiscente si illumina della scritta HOTEL. Lo vedo dalla finestra, ma oggi lo squallore resta fuori da qui.
A volte alzo lo sguardo verso la luce arancione, cerco i verbi più afosi nella sua gradazione e aspetto che gentilmente le mie mani mi sfilino il dolore di dosso srotolandolo tra queste righe. Mi sembra di essere in ascolto, di reagire prontamente ad ogni percettibile segno di cedimento dei nervi. Cerco di catturarli, distenderli, voglio convincermi di averli sotto controllo, ma loro se ne stanno lì, immobili, tesi e terrorizzati come ratti. Non si fanno avvicinare, allontanano i pensieri che solitamente mi assediano. Non si lasciano curare.

Non si lasciano curare, ma so che come un vaccino veglieranno a lungo, a volte mi ammaleranno, un giorno mi salveranno. Con gli sbagli è così: se riescono a diventare la tua storia, non fanno più male.

Mi alzo per pochi minuti, torno al mio posto sul divano, rivolta verso una televisione spenta ed affiancata da mozziconi piegati. Sola, ma soltanto perché è molto tardi e mia sorella è a letto,a dormire. Solo per una frazione di secondo ho ricordato cosa mi spingesse a scrivere e subito dopo l’eclissi è cominciata, è venuto il buio, il tempo si è fermato di nuovo. Così ancora una volta sono i colori della stanza e i suoi odori e le lancette che spezzano i minuti a mantenermi sveglia.
Allora apro la mia playlist preferita e lascio che mi commuova senza ricordare perché desideri così tanto piangere. Quei pensieri, le motivazioni, la sofferenza.. li ho dimenticati all’improvviso. Eppure è tutto lì, dietro l’ombra della luna, tutto che disegna un’iridescente corona intorno agli sforzi della mia mente per cancellare ogni cosa. E’ una corona che non puoi guardare direttamente, ferisce gli occhi, rende cieco. E’ un’eclissi che dura molto più di sette minuti e mezzo.

Ma niente, non piango. Divago, mi guardo intorno, penso a qualsiasi cosa, il vaccino mi scivola tra le mani, guizza via, lontano. La corona continua a brillare, oscura.
E anche questa volta non c’è una conclusione. Ciò che dovrebbe uscire non esce. Ciò che dovrebbe entrare non può. I desideri non debbono essere realizzati e le fantasie graffiano come le spine di un cactus. Tutto brucia e si consuma, ancora niente si riduce in cenere o può essere spazzato via.

Come cani a disagio

Volevo iniziare a scrivere con una frase originale, che avrebbe stupito e catturato il lettore.
“Era una giornata uggiosa” fu comunque un buon risultato, considerando il deserto di creatività che mi portavo dentro. E poi era davvero una giornata uggiosa e lo spiraglio di luce grigia tra le tende me lo ricordava fastidiosamente. Avevo preso da qualche settimana l’abitudine di chiuderle, di filtrare tutto quello che entrava con un velo bianco e neutro, impersonale, innocente, silenzioso. E non le aprivo quasi mai, perché quasi mai il sole riusciva ad affacciarsi oltre il palazzo che faceva ombra al mio, specie in inverno, specie adesso che ci sarebbe voluto molto più di un astro ad illuminare qualcosa.
Così era una giornata uggiosa, l’avrei passata con troppe persone indesiderate, non mi sarei neppure accorta del suo passaggio, a breve, eppure in quel momento di pausa tra un’attività e l’altra riuscivo a percepire nettamente l’indisposizione che quel tempo mi metteva addosso. Mi pareva di indossare un maglione di lana dura e pesante e di non riuscire ad evitarne il prurito.
Curiosa, la parola “uggioso”, poi. Chissà se è venuta prima o dopo l’uggiolare di quei cani a disagio, quelli come me che guaiscono sommessamente, percepiscono il malessere e se ne lasciano trasportare. Allora quel tempo mi rendeva cane uggiolante, io e le nuvole facevamo un bel coro.

come cani a disagio Immagine presa da qui: http://biellette.deviantart.com/art/pioggia-alla-sbarra-331830085/caption

Un bicchiere per uno

C’era questo spicchio d’arancia matura, nel cielo. Una striscia sottilissima, quasi un capello, ed era ruvido, colmo di solchi che Vera scopriva nella lente del telescopio riempendosi d’entusiasmo.
Li vedo! Posso contarli, è incredibile!

Aveva imparato a restare immobile quando osservava la stellata, a volte si sforzava persino di non respirare per essere certa di guardare esattamente quello che gli altri avrebbero visto poco dopo. Quella sera era stato così faticoso che aveva quasi il fiatone. Si scostò per mostrare lo spicchio rosso a Maurice e restò a guardarlo con la bocca aperta solo a metà, pronta al sorriso ma ancora in attesa.. e poi l’aprì, guardando anche il suo allargarsi davanti alle stelle.

– Non l’ho mai vista, una luna così. E’ la più bella arancia che si sia mai immaginata
– Dovremmo fotografarla come si fa con il sole che tramonta
– Oppure potremmo guardarla ancora qualche minuto, finché non brucerà sotto le palpebre. Allora questo inverno quando avremo freddo chiuderemo gli occhi e la vedremo e ci riscalderà.
– E cosa succederà se quel giorno se ne sarà andata?
– Allora farà freddo ma potrebbe nevicare. E quando nevicherà lancerò la neve proprio lì, dove adesso vedi l’arancia. Ogni notte prenderà il posto della luna piena, finché non si farà mattino.

Vera tacque per qualche secondo, riflettendo con lo sguardo rivolto alla luna.
– E cosa faremo al mattino?
– La colazione, naturalmente. Spremuta d’arancia. Un bicchiere per uno.

un bicchiere per uno

(immagine presa qui: http://www.deviantart.com/art/Orange-on-Blue-149803228)


Natalie – Sotto di te

sotto di teImmagine presa da https://unamoleskine.wordpress.com/

Ora dormo. Sei lì sopra, russi un po’, mi fai sorridere. Non ti vedo ma il letto si muove coi tuoi respiri. Ci sono abituata, non riesco più a dormire senza vederlo gonfiarsi e sgonfiarsi sotto il tuo peso. Sono sotto di te, a volte allungo la mano e tocco il materasso, spero che tu mi senta, che te ne accorga ma nell’incertezza taccia. Spero che a volte la tua mano sporga dal letto invitandomi a toccarla, e che non sia solo un riflesso del sonno. Non ho mai preso quella mano, ho sempre avuto paura, ma molte volte sono stata così vicina a farlo che ho temuto diventasse reale.
A volte tocco il materasso, dicevo, da sotto. Lo accarezzo, faccio una leggera pressione perché tu possa percepire la mia presenza, e forse dormi già. Immagino che anche tu passi le tue notti ad occhi aperti, che cerchi di respirare piano perché non me ne accorga, che desideri affacciarti verso il mio letto, sotto il tuo, e guardarmi vegliare con te. Immagino che lo desideri quanto io desidero salire su quella scala ed accucciarmi ai tuoi piedi come una bestia fedele, chiudere gli occhi e non aver più bisogno di immaginare. Non aver più bisogno di quella scala.
Ti sento che respiri forte, stanotte. Forse sogni, e magari sogni di questi giorni persi nel silenzio dell’incapacità di comprendere cosa ci succeda. Da quando siamo tornati non parliamo più, da quando siamo tornati le parole bruciano più dei silenzi e i silenzi sono leggeri come l’aria di montagna. Sono più semplici. Non sussurrano più.

Vado a dormire, spero che i miei pensieri incontrino i tuoi, stanotte, che vi si intreccino e creino sogni nuovi. Spero di incontrarti in quei sogni e così, anche se non mi sveglierò al mattino al tuo fianco, saprò che per qualche ora ci siamo tenuti la mano. O sogneremo quei giorni insieme, l’odore di morte e paura, di vita, sospetto, l’odore di animali che si sentiva quando non eravamo a casa, e le nostre mani si toccavano per davvero di fronte al terrore di perderci.
Invece ci siamo persi quando pensavamo non potesse più accadere. Dopo tre anni e migliaia di scale e migliaia di corse e migliaia di noi, oggi ci siamo persi, dormiamo distanti, separati dal peso di noi stessi, separati da un materasso e da tutte quelle volte che la vita ci è sembrata tornare esattamente al giorno in cui tutto è cominciato. E ti amavo già allora, lo sai? Nel tuo essere quello che sei, nella tua natura, nella tua persona, nello sguardo glaciale che mi rivolgesti quella prima volta e nella voce dura che usasti quando ci scambiammo le prime parole. Ti amavo quando ti chiusi fuori dalla nostra camera e non volli vederti per giorni; ti amavo quando amavo un altro e pensavo a un altro; ti amavo quando cominciai a odiare me stessa, e salii quelle scale, ti cercai fino a svenire. E persi il respiro per te, persi me stessa per te, persi il mio mondo, per te. Persi ogni cosa per te e ad ogni cosa che persi ti amai, più di tutto, più di chiunque altro, più della mia vita, più di ogni respiro.
E proprio ascoltando il ritmo del tuo respiro chiudo gli occhi, non tocco più il materasso e resto ad ascoltarti come ho fatto per mille altri giorni. Stavolta ti amerò fino al mattino, poi io me ne andrò e nello stesso silenzio che ci portiamo ora addosso ci diremo addio, lasciandoci soli per un’ultima volta.

Il Sole in Inverno

Il sole in inverno Immagine di http://nnikoo.deviantart.com//caption

Il sole in inverno ha un odore particolare. Lo sento che mi entra nelle narici con un tepore fragile, un po’ un fiocco di neve al contrario. Un fiocco di luce che ti riscalda la punta del naso e poi non ce la fa. Ti saluta con l’affetto di chi sa di dover andare via, esaudisce i desideri nostalgici dell’estate, ti promette che lo rivedrai presto, poi fugge.

E’ a questo che penso quando esco dal cinema con voi, ed è già sera. Fuori è buio, le luci artificiali ci fanno strada, sento subito l’odore dell’inverno che bussa per la prima volta, questo Ottobre. E’ l’inverno che piega i profumi in un modo tutto suo, li modella come facciamo noi con la neve, ce li restituisce nuovi e preziosi. Cammino al vostro fianco e guardando avanti penso che il fumo, in questa stagione, non assomigli per niente a quello estivo. Ha un odore di casa e coperte, di camino e caffè caldo, l’odore delle castagne e del gelo. L’odore dei guanti di lana. Quasi me li sento addosso.

Il film mi è piaciuto, apprezzo quando mi viene offerto un buon intrattenimento per due ore. Mi piace spendere soldi per una bella esperienza e mi sono abituata a spenderli in vostra compagnia, con le mani nelle vostre, con le spalle al vostro fianco, con i sorrisi nati nella nostra spontaneità. E’ per questo che cammino tra voi, quasi saltello di gioia, quasi dimentico quello che succede, quasi credo che sia tutto come prima. Guardo la luna, perfetta, disegnata con precisione, un sole di notte, e ricordo quando eravamo insieme, tutto era appena iniziato, le nostre mani si intrecciavano con l’acqua marina.

Cammino ancora, abbiamo fatto sì e no dieci passi, voi parlate, giocate, continuate ad avanzare, eppure a me sembra di restare indietro. Mi portate con voi ma dentro mi sono fermata, per guardarvi da dietro travolta dalle nostre stelle comete e i nostri segni del destino, quelli che non sono mai esistiti ma si sono vestiti da pennelli, hanno dipinto il quadro perfetto che oggi è sulla nostra strada. Il quadro in cui ogni pezzo è incastrato con l’altro, quello di cui non ci liberiamo, quello che sta strappando i nostri cuori in pezzi.

Quando i pensieri raggiungono i miei passi non riesco più a guardarvi. Ricordo che giorni fa pioveva e d’improvviso riuscivo a vedere e sentire ogni goccia di pioggia. D’improvviso il suo rumore era una consolazione, il pianto un battesimo dell’autunno. Il conforto che cercavo, proprio quando il sole non c’era più, batteva sui vetri dell’auto dov’ero sola, ed io lo facevo entrare.
Poi la pioggia è rimasta, ed ora cammina con noi.

Alina – Polvere ritornerai

 

Si muove su due stecchi trasparenti, lattiginosi, barcollanti. Un pagliaccio instabile, fragile, un filo d’erba che fa del suo meglio per non piegarsi, e il suo meglio non basta. I tremiti diventano passi, le spalle aguzze si stringono affaticate dal peso della testa, decorazioni di panna rancida mischiate con capelli di carta. Se lì dentro piovesse si scioglierebbero lasciandola calva, e a guardarla lo è già, anche se indossa quello strano cappello di steli biondi. E i nei, impronte di un malessere che le ha covato dentro e che ha ingrigito la pelle. Adesso si poggia contro il muro, le piastrelle sono fredde come le ossa e il camaleonte ha il loro stesso colore, quello della neve sporca e calpestata. Scompare quasi, le mani coprono il viso come ragnatele, i passi continuano a tremare, i tremiti continuano a fare passi. Quando il fantasma di donna cammina davanti allo specchio, questo non la riflette. Si intravede una mezzaluna femmina nel bordo inferiore, ma senza spessore e senza luce, e senza occhi. Lo spettro non può vedersi e non ha bisogno di farlo, sottile come un foglio, quasi non esiste mentre attraversa il bagno fino alla vasca. La tenda bianca che filtra la luce non si muove, avverte il movimento ma non la vita, non si scuote, non si apre, e la donna si accartoccia non lontano, si incastra tra i bastoncini di gambe e i rametti di braccia, secchi entrambi. Nasconde la faccia tra le ginocchia ma non funziona, e allora si poggia al muro, il collo fatica a far da sostegno ma non serve, la testa rotola, legata ad esso, e se potesse cadrebbe a terra, rotolerebbe via da lì, cercherebbe il suo posto dove potrebbe essere una meteora. A volte lo spettro si racconta, o vorrebbe, ma non ci sono punti, perde il respiro, si affanna perché non ci sono pareti che possano trattenere l’ossigeno e i pensieri, attraversano il corpo e tornano fuori e poi dentro e poi fuori, senza fine respira. Respira.

Respira.

Sono mosche, quelle della ceramica? Ha sempre pensato fossero fiori ma no, sono mosche, ora è chiaro. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto disegnare delle mosche su un barattolo, si chiede, e perché mai avrebbe dovuto disegnarci dei fiori. Un barattolo bianco di mosche dure e immobili, eterne, vermi cresciuti e mai liberi da sé. Oppure sì, a leccare quel contorno blu, come mirtilli, una marmellata dolce di frutti neri, e la mosca che lecca, lecca e succhia, e

respira

respira

Respira.

In quella casa tutto è vetro

pensa. Il mobiletto di vetro, la mensola, soprattutto la mensola di vetro. I profumi, il contenitore dei profumi dorati e vecchi e rancidi come la pelle della ragazza, come i nei, come i capelli umidi, i profumi sono di vetro. La testa gira, rotola, di vetro la finestra ma è coperta dalla tenda. La tenda immobile, rotola, la ragazza di vetro, la vasca e la ragazza di vetro accartocciato che si rompe, non si rompe, è già rotta, e rotola.

Rotola ogni cosa

il respiro torna

a volte

eccolo

Apre gli occhi, la luce li ferisce. In fondo al tunnel è tutto bianco, bianca la polvere respirata che l’ha portata lì. In fondo al tunnel è bianco come un bagno, le piastrelle bianche e la pelle bianca, e la donna bianca o nera o non importa, tutto è bianco.

Si alzerà o morirà lì

nel bagno, in fondo

al tunnel

Comunione a vent’anni

comunione

Era ancora un ragazzo quando aveva immaginato la sua morte. Aveva passato l’intera giornata in riva al lago, seduto in una zona sassosa, sempre scomodo e immobile perché la carne si adattasse al suolo spigoloso. C’era vento e tuttavia la giornata era molto calda, tra le più insopportabili che si fossero mai viste ad Elva, e il sole, immerso in un cielo così pulito da sembrare pallido, spremeva il sudore dai corpi con violenza, lasciandoli esausti e incapaci di pensare.

Luik sedeva sulla riva, all’evanescente ombra di un alberello instabile, guardava l’acqua del lago farsi blu ceruleo e riempirsi di piccole gemme di luce che ad occhi socchiusi sembravano insofferenti lucciole bianche, e contemplava l’idea di immergersi nella distesa d’acqua senza particolare fretta. Aveva vent’anni, il corpo quasi nudo coperto delle gocce d’acqua del bagno di pochi minuti prima, i capelli bagnati che disegnavano piccole curve scure sul viso sbarbato e su di esso un’espressione serena, ancora affatto scolpita dagli anni vissuti fino ad allora. Si era alzato dopo qualche minuto e aveva camminato verso l’acqua con attenzione, evitando i sassi più appuntiti, fino ad immergere l’estremità dei piedi e poi le caviglie dentro quella grande brodaglia fresca, quando un piccolissimo pesce verdastro si era avvicinato ad essi tentando di ricavarne qualche cosa, facendolo suo malgrado sussultare e cadere nella distesa d’acqua. Il silenzio intorno si era spento per un lungo attimo, mentre le onde rimettevano in ordine lo specchio in cui si era infine immerso, il suo corpo rosso dal sole, schiaffeggiato dalla differenza di temperatura.

Era rimasto seduto sul fondo melmoso, la testa e le spalle oltre la superficie e tutto il resto immerso, con un incredibile sollievo che gli attraversava le membra e gli ridava la vita, e allora aveva cominciato a pensare a quanto fosse completo l’essere lì, a quanto essere abbracciato dal lago e dal sole, dal bosco intorno e dai sassi sotto di lui, superasse di gran lunga qualunque cosa da lui provata. Gli sembrava di aver fermato ogni desiderio insoddisfatto ma di essere ancora profondamente immerso nel tempo, di far parte di qualcosa, di iniziare e finire in quello stesso equilibrio dei sensi. I suoi occhi riuscivano a cogliere l’interezza del lago, la sua pelle lo percepiva nella sua densità e nella sua storia di lago invernale, quasi mai caldo, e poi il suono delle onde appianava qualsiasi pensiero emergente, regalandogli una serenità che avrebbe voluto portare con sé sempre, ogni giorno. Così aveva realizzato, lasciandosi travolgere dalle piccole onde tiepide, che sarebbe stato davvero brutto morire in inverno. Che la morte non avrebbe mai dovuto colpirlo quando tutto questo non fosse completo e realizzato su di lui, quando non ci fosse la possibilità di salutare per un ultima volta quel Luik che aveva dentro acqua, terra e luce, che era insieme lago, bosco e cielo. Che se la morte l’avesse colto in quell’istante, allora l’avrebbe accettata e che sarebbe stato più che giusto che l’avesse portato con sé, lasciandolo sciogliersi insieme ad ogni pesce e foglia dentro il lago. Sembrava quasi ingiusto non poter scegliere che le cose andassero così, eppure sarebbe stato perfetto, la vita avrebbe fatto il suo corso, si sarebbe spenta in una morte che non sarebbe stata distruzione ma completamento, la totale, definitiva comunione con il mondo.

Aveva sentito molte volte parlare di questa sensazione, libri e aforismi riempivano bocche e biblioteche senza riuscire mai a cogliere più di una certa banalità, e solo in quel momento si era reso conto di quanto dietro simili luoghi comuni potesse trovarsi una verità così grande. Quella era la felicità tanto osannata, l’indescrivibile sensazione di essere colmati da una sorgente fresca nel giorno più caldo dell’estate, e diventarne parte, non essere mai stato lì ed essere lì da sempre, come un destino che mai avrebbe potuto evitare.

Anche quando si era dovuto alzare ed allontanare dall’acqua, aveva dovuto tornare a casa spinto dalla fame, pur lasciandosi alle spalle quel momento eterno, si era sentito cambiato, portava dentro qualcosa in più che sapeva avrebbe faticato a nascondere nella quotidianità. Da quel momento capì che non avrebbe mai potuto lasciare la sua terra, che Elva sarebbe stata la sua splendida, verdeggiante, fertile tomba.

Apologia del Libro Vero

Questo non è un Libro.

Scontrandomi con me stessa, guardo alla mia opera con l’orgoglio di un genitore. Eppure mi capita, a volte, di pensare che no, quello non è un Libro. Non solo per la sua forma digitale, dai contorni impalpabili e volatili, come si potrebbe pensare in un primo momento. Sento che quella è una mia creatura, ma la rinnego, non la chiamo Libro. Libro è troppo. Libro è altro.

Cos’è un Libro?

Il Libro è quello che scrivono i grandi scrittori. Anche se non ci piace, anche se si chiama, chessò, Cinquanta Sfumature di Grigio, quello è un Libro. Quello che si può comprare ad un prezzo alto, ma soprattutto quello che si può vendere, ad un prezzo alto. Quello che spinge l’editore ad investire una piccola fortuna, quello in cui qualcuno ha creduto fino al punto di spingerlo nelle librerie – non i Caffè Letterari, non le Librerie Indipendenti, badate bene. La Feltrinelli, semmai, la Mondadori. QUELLE librerie. E’ lì che troviamo il Libro. Il Libro Vero, con le maiuscole ovunque si possano mettere le maiuscole. Il Libro che quando lo hai letto puoi parlarne con gli amici. Non importa che ti sia piaciuto, solo che se ne parli, che te ne possa vantare se non altro per cultura. Il libro di cui si parla, quello è un Libro. Che poi è così che ha avuto successo, se ne è parlato. Ma da dove è iniziato, questo passaparola, poi? Da chi? Il Libro è quello che vende sia in cartaceo che in digitale. E’ quello che ha almeno 200 pagine, ma sarebbe meglio ne avesse 300, tanto alla fine scorre. Libro è quello di J.K Rowling ma anche quello di Francesco Sole, che non è proprio un libro vero, ma forse sì, perché è così che dicono: lui ha scritto un Libro. Quindi Libro è chi lo scrive o chi lo vende. Libro è quello che non ha bisogno di scrivere ai blog letterari, ai forum, alle pagine Facebook che oggi lo trovate gratis, o che domani c’è la promozione con il 50% di sconto. E’ quello che si vende da solo, anche al supermercato, tra i libri-gioco per bambini e i ricettari per casalinghe.

Allora riflettendo su tutto questo a volte penso di non essere uno scrittore. Anzi, uno Scrittore.
Perché lo Scrittore è quello che scrive un Libro, quello di cui ti ricordi il nome, quello per cui sei disposto ad arrivare anche alla seconda pagina di Google, per cui vale la pena cercare anche dopo che il primo link ha fatto cilecca. Quello con settantacinque recensioni su Amazon, belle o brutte, ma probabilmente autentiche. Io arrivo a otto e chissà quante non sono state scritte da parenti e amici. Avrei dovuto nascere in una famiglia più numerosa. O più furba. O più colta.

L’Identità dello Scrittore è complessa, indefinita, senza limiti. Me ne accorgo rileggendomi, che non so Chi sono e non so Cosa voglio. E che vorrei che foste voi o gli altri o chiunque a chiamarmi Scrittore, perché da sola non ce la faccio. Da sola mi sembra di sussurrarlo in mezzo a giganti che se lo sentono gridare dalle montagne, e che invece di portarmi sulle loro spalle mi calpestano. Ignari, per carità. O ciechi. Comunque uno gnomo tra i giganti, che insomma, quanto può durare?

Eppure, mentre voi ed io diciamo che quell’operetta Libro non è di certo, storpia e piccola e immatura e digitale, lei è venuta alla luce là dove centinaia di altre opere sono rimaste incompiute. Non sarà degna della maiuscola, ma forse ce l’ha fatta, a guadagnarsi almeno la parola.

libro

Alle tue spalle

Sono passati pochi minuti dalla fine delle urla. Non credevi che fosse possibile arrivare a tanto per così poco, ora ci credi. A terra, poggiato con la schiena contro il muro, gli occhi sgranati dal pianto ma soprattutto dall’incredulità, le lacrime immobili, che bruciano come una punizione. E ti piace che sia così, vuoi che brucino ancora, più a lungo, speri che entrino sotto la tua pelle come un veleno, cancellino la vista, ti costringano ad un’umile condizione di cui lamentarti. E’ così. Più facile se sei la vittima di qualcun altro, e non di te stesso. Se puoi gettare secchiate di responsabilità sul mondo, persino sacrificando una parte del tuo corpo, pur di non essere contaminato dalla colpa delle tue stesse mani.

Ma le lacrime non sono veleno, non uccidono e fanno solo male, così ti trovi a contemplare dolorosamente una parete vitrea, che si scioglie sulle tue guance poco dopo, lasciando una traccia salata sulla pelle. Le senti seccare, dev’essere passato del tempo, ma sei ancora lì, nella stessa posizione che occupavi qualche lungo minuto fa.

Al tuo fianco ci sono delle lunghe forbici dalle lame affilate. Quando non ha funzionato il veleno hai provato con quelle, approfittando codardamente dell’adrenalina che avevi in corpo per evitare di sentire dolore, mentre ti torturavi. Pensavi di punirti ma adesso non ne sei più tanto sicuro. Anche le forbici ti volevano immacolato, sporco di sangue ma pulito come solo una vittima riesce ad essere, sotto una strage di ferite auto-inflitte. Avvicini la mano al polpaccio, percorri quel lungo graffio con la punta dell’indice e capisci che non vuoi davvero sapere che cosa significhi, quello che ti sei fatto. Ti concentri, piuttosto, sul pensiero più facile:

– Incredibile che mi abbiate costretto a tanto –

Lo sai bene, la responsabilità non è solo la tua. Né solo la loro. La porta è chiusa a chiave, la guardi come una prigione e ti accorgi di temerla come un animale che non ha mai vissuto in libertà. E’ così bella la tua stanza, la osservi con l’affetto di un amante mentre ti sdrai sul letto, ed abbracci la coperta cercando di farla tua, di vincerne i limiti fisici, di renderla un’eterna emanazione della tua persona. Ma non funziona così, lo sai, l’abbracci più forte e lei è ancora un oggetto qualunque, troppo grande persino per entrare in una valigia.

A quante cose puoi rinunciare in cambio della libertà?

Cominci a contarle mentalmente, cominci dalla coperta, passi per le forbici, e basta guardarti intorno per scoprire centinaia di catene materiali che ti trascinano dentro quelle sbarre, seducendoti con la trappola del possesso. Non ti serve una coperta come quella, né ti servono i pennarelli colorati o l’album da disegno o lo stereo, i libri, la televisione, i peluches. Non ti serve la lampada azzurra, quando si accende si scalda e delle grosse bolle di cera, crea disegni bellissimi, superflui, inutili, non ti serve. Non l’hai mai usata e adesso la accendi, d’improvviso è l’ultima volta che la userai, che la vedrai, che potrai toccarla. E’ bellissima, la guardi nei suoi giochi di luce e le lacrime ricominciano a scendere, inasprite da una nostalgia che vede nel futuro e ti fa sorridere con amarezza. Domani non sarai più qui, lo capisci adesso che gli occhi si chiudono, stretti, e rinunciano alla tua lampada, strappandotela di dosso come se si trattasse di un secondo cuore. Il dolore che provi è quasi peggiore.

C’è silenzio, in casa. Dentro di te, le grida. E tu non sei altro che un piccolo essere senza forma, calciato nel vuoto, dove continuerai a precipitare. Ti senti così, mentre cominci a scrivere una lunga lista di cosa ti servirà per andare via. Lo fai su un foglio strappato, non è un progetto, è un piano di fuga disperato per un’anima costretta a respingere il proprio corpo per restare in vita.

E’ come morire – pensi, ed aggiungi lo spazzolino, alla tua lista, non il dentifricio perché quello te lo farai prestare. Solo le cose essenziali, ti ripeti, cercando di concentrarti sulla praticità. Ti concedi il diario che contiene i tuoi ultimi anni di vita, lo nasconderai in fondo alla valigia come un bene prezioso, anche se sono secoli che non ci scrivi nulla. Ma è il tuo certificato di vita, sai. La testimonianza che quello che hai fatto finora ha avuto un senso. Non sai come né quale, ma conti di rileggere quelle pagine centinaia di volte, finché i tuoi occhi un giorno non comprenderanno la verità. Aggiungi alla lista un paio di scarpe. Ti scrivi di contare i soldi che hai messo da parte, poi scegli di contarli subito e sono seicento. Da qui comincerà la tua vita a scadenza. Cerchi le forbici e non trovandole scegli di conficcare le unghie nei palmi, ti chiedi come facciano a farli sanguinare, nei film, e cosa se ne facciano di tutto quel dolore in cui tu stesso cerchi una risposta.

Il sonno arriva, ti coglie esausto.

Poi la mattina la sveglia suona, in casa non c’è nessuno, fai le valige, raccogli i resti del tuo mondo dentro qualche centimetro quadro di spazio, non lasci nemmeno un biglietto. In quella casa non c’è più spazio nemmeno per le parole, nemmeno per respirare. Abbandoni te stesso alle tue spalle, scivoli fuori verso il futuro che ti ha sempre terrorizzato, che anche ora ti terrorizza come una malattia, e scegli l’unica via rimasta in cui ti è concesso vivere. Quella che non sceglieresti mai se non fosse l’unica possibile.

E’ l’unica possibile.

Tua madre torna poco prima dell’addio. Non guardi più la lampada azzurra. C’è silenzio, lei ti chiede cosa fai.

Me ne vado – rispondi, e lo dici a te stesso come le parole di una guida, perché sei rimasto il solo a credere che lo puoi fare davvero. Ma ora ci crede anche lei, è ancora arrabbiata, il rancore è così denso che l’ultimo abbraccio sembra quello di due pareti. Crollano l’una sull’altra, puoi quasi sentire il boato che ogni frammento di muro provoca cadendo a terra, scontrandosi con l’altro, incapace di adeguarsi alla sua forma. Non c’è altro da dirsi, adesso. Entri in ascensore, carico di valige, e non guardi il piccolo cavallo di peluche che hai portato con te. L’ultima concessione che ti sei permesso, l’unico pezzo di te che è sopravvissuto.

Te ne vai sul serio, come nessuno credeva che avresti mai potuto fare.

Sull’autobus è difficile trovare posto. Hai una valigia enorme, diversi zaini e buste, il petto pesante come non lo era mai stato. Sali ed hai un deja-vu della notte prima, dove ogni posto è un addio, ogni luce del quartiere è l’ultima luce, ogni ricordo è l’ultimo. Intorno a te i volti rassicuranti di chi non sa nulla ti guardano senza troppa curiosità. Qualcuno ti aiuta a salire, qualcuno a scendere, altri ti ignorano, inseguendo i propri problemi. E la città intorno a te cambia, ogni chilometro percorso ti allontana da quello che eri, ti avvicina alla periferia di te stesso, dove ogni possibilità è peggiore di qualsiasi altra avevi osato pensare per te. Contempli mentalmente ciascuna possibile trasformazione, cosa farai, cosa sarai costretto a fare, se riuscirai a farlo. A volte, ancora lì seduto, ti accorgi che il tuo viso si riflette sul vetro del finestrino, mostrando l’immagine di una faccia che non hai potuto lasciare indietro. E’ la tua firma su quella colpa che avverti sulle spalle da quando avevi quelle forbici in mano.

Forse, a questo punto, la cosa più difficile da fare è fermarti, guardarti negli occhi e dirti che ce la farai. Perché farcela significherebbe ammettere che tutto quello che si è lasciato indietro, tutti quei ‘te stesso’ che avresti voluto portarti non erano davvero così importanti. Perché farcela vorrebbe dire ammettere che avevano ragione loro, ad insistere perché ci provassi. Che forse era solo una questione di volontà, che avresti potuto risolvere tutto semplicemente ascoltando le loro parole.

O magari no. Magari farcela significherebbe dimostrare a te stesso che non mentivi, quando ti dicevi che volevi aspettare il momento giusto. Che avresti potuto farcela in qualsiasi momento, ma non ce n’era la necessità. Che ti sei goduto ogni briciola, perché ora non è rimasto nient’altro. Che sapevi che non sarebbe stata una passeggiata, ed era per questo che, potendo, avresti voluto restare. Però era troppo da sopportare.

E’ troppo.

Alla fine di questa riflessione l’autobus annuncia la tua fermata. Devi scendere, lo fai pensando che tutto sommato non importa chi avesse ragione. Per una volta la concedi volentieri, essa non ha più alcun valore.

Entri in quella casa non tua e non riesci a sentire il sapore della libertà, sospettando che non sia mai esistito. Forse la libertà è l’ideale degli ingenui. Ogni bagaglio è il ricordo della povertà acquisita, ogni routine è quella di qualcun altro, ogni impegno è l’obbligo di una strada indesiderata. Ma non appena cominci a chiederti se ne sia valsa la pena tornano alla mente quelle grida, il sollievo delle forbici, il vuoto dello stomaco che non aveva cenato ed imitava perfettamente la desolazione interiore che provavi. Allora sistemi le tue cose sotto il letto a castello, in quel piccolo buco di stanza che qualcuno ti ha procurato, ed esci sul balcone, a respirare l’aria di una città nuova. Non sai ancora cosa ti aspetta, non sai quanto a lungo dovrai aspettare prima di cominciare a risalire, ma soprattutto non sai quanto in basso si possa ancora cadere. Hai gli occhi così aridi che quasi credi di non aver ancora sbattuto contro il fondo.

E’ così che succede. Ti scontri con i tuoi limiti, ti fai un male cane, piangi di una disperazione impossibile, perdi te stesso, perdi gli altri, dimentichi cosa significhi Essere, comprendi solo cosa significhi Esserci, qui ed ora. Soffri per ogni passo, temi ogni chiamata, e poi ad un certo punto è passato un mese, due, dieci, un anno. E non è andata né come speravi, né come temevi.

Allora, ecco, c’è una cosa che volevo dirti, a questo punto, mentre ti volgi al tuo futuro tremando su quel balcone. Guardo indietro di qualche anno, ti penso, penso a quello che eri, rileggo quel diario che ti sei portato dietro fino alla fine, e finalmente vedo davvero come sono andate le cose.

Finalmente quel riflesso non mi fa più paura.

Ce l’hai fatta. Sei sopravvissuto.

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