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Alina – Polvere ritornerai

 

Si muove su due stecchi trasparenti, lattiginosi, barcollanti. Un pagliaccio instabile, fragile, un filo d’erba che fa del suo meglio per non piegarsi, e il suo meglio non basta. I tremiti diventano passi, le spalle aguzze si stringono affaticate dal peso della testa, decorazioni di panna rancida mischiate con capelli di carta. Se lì dentro piovesse si scioglierebbero lasciandola calva, e a guardarla lo è già, anche se indossa quello strano cappello di steli biondi. E i nei, impronte di un malessere che le ha covato dentro e che ha ingrigito la pelle. Adesso si poggia contro il muro, le piastrelle sono fredde come le ossa e il camaleonte ha il loro stesso colore, quello della neve sporca e calpestata. Scompare quasi, le mani coprono il viso come ragnatele, i passi continuano a tremare, i tremiti continuano a fare passi. Quando il fantasma di donna cammina davanti allo specchio, questo non la riflette. Si intravede una mezzaluna femmina nel bordo inferiore, ma senza spessore e senza luce, e senza occhi. Lo spettro non può vedersi e non ha bisogno di farlo, sottile come un foglio, quasi non esiste mentre attraversa il bagno fino alla vasca. La tenda bianca che filtra la luce non si muove, avverte il movimento ma non la vita, non si scuote, non si apre, e la donna si accartoccia non lontano, si incastra tra i bastoncini di gambe e i rametti di braccia, secchi entrambi. Nasconde la faccia tra le ginocchia ma non funziona, e allora si poggia al muro, il collo fatica a far da sostegno ma non serve, la testa rotola, legata ad esso, e se potesse cadrebbe a terra, rotolerebbe via da lì, cercherebbe il suo posto dove potrebbe essere una meteora. A volte lo spettro si racconta, o vorrebbe, ma non ci sono punti, perde il respiro, si affanna perché non ci sono pareti che possano trattenere l’ossigeno e i pensieri, attraversano il corpo e tornano fuori e poi dentro e poi fuori, senza fine respira. Respira.

Respira.

Sono mosche, quelle della ceramica? Ha sempre pensato fossero fiori ma no, sono mosche, ora è chiaro. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto disegnare delle mosche su un barattolo, si chiede, e perché mai avrebbe dovuto disegnarci dei fiori. Un barattolo bianco di mosche dure e immobili, eterne, vermi cresciuti e mai liberi da sé. Oppure sì, a leccare quel contorno blu, come mirtilli, una marmellata dolce di frutti neri, e la mosca che lecca, lecca e succhia, e

respira

respira

Respira.

In quella casa tutto è vetro

pensa. Il mobiletto di vetro, la mensola, soprattutto la mensola di vetro. I profumi, il contenitore dei profumi dorati e vecchi e rancidi come la pelle della ragazza, come i nei, come i capelli umidi, i profumi sono di vetro. La testa gira, rotola, di vetro la finestra ma è coperta dalla tenda. La tenda immobile, rotola, la ragazza di vetro, la vasca e la ragazza di vetro accartocciato che si rompe, non si rompe, è già rotta, e rotola.

Rotola ogni cosa

il respiro torna

a volte

eccolo

Apre gli occhi, la luce li ferisce. In fondo al tunnel è tutto bianco, bianca la polvere respirata che l’ha portata lì. In fondo al tunnel è bianco come un bagno, le piastrelle bianche e la pelle bianca, e la donna bianca o nera o non importa, tutto è bianco.

Si alzerà o morirà lì

nel bagno, in fondo

al tunnel