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Alle tue spalle

Sono passati pochi minuti dalla fine delle urla. Non credevi che fosse possibile arrivare a tanto per così poco, ora ci credi. A terra, poggiato con la schiena contro il muro, gli occhi sgranati dal pianto ma soprattutto dall’incredulità, le lacrime immobili, che bruciano come una punizione. E ti piace che sia così, vuoi che brucino ancora, più a lungo, speri che entrino sotto la tua pelle come un veleno, cancellino la vista, ti costringano ad un’umile condizione di cui lamentarti. E’ così. Più facile se sei la vittima di qualcun altro, e non di te stesso. Se puoi gettare secchiate di responsabilità sul mondo, persino sacrificando una parte del tuo corpo, pur di non essere contaminato dalla colpa delle tue stesse mani.

Ma le lacrime non sono veleno, non uccidono e fanno solo male, così ti trovi a contemplare dolorosamente una parete vitrea, che si scioglie sulle tue guance poco dopo, lasciando una traccia salata sulla pelle. Le senti seccare, dev’essere passato del tempo, ma sei ancora lì, nella stessa posizione che occupavi qualche lungo minuto fa.

Al tuo fianco ci sono delle lunghe forbici dalle lame affilate. Quando non ha funzionato il veleno hai provato con quelle, approfittando codardamente dell’adrenalina che avevi in corpo per evitare di sentire dolore, mentre ti torturavi. Pensavi di punirti ma adesso non ne sei più tanto sicuro. Anche le forbici ti volevano immacolato, sporco di sangue ma pulito come solo una vittima riesce ad essere, sotto una strage di ferite auto-inflitte. Avvicini la mano al polpaccio, percorri quel lungo graffio con la punta dell’indice e capisci che non vuoi davvero sapere che cosa significhi, quello che ti sei fatto. Ti concentri, piuttosto, sul pensiero più facile:

– Incredibile che mi abbiate costretto a tanto –

Lo sai bene, la responsabilità non è solo la tua. Né solo la loro. La porta è chiusa a chiave, la guardi come una prigione e ti accorgi di temerla come un animale che non ha mai vissuto in libertà. E’ così bella la tua stanza, la osservi con l’affetto di un amante mentre ti sdrai sul letto, ed abbracci la coperta cercando di farla tua, di vincerne i limiti fisici, di renderla un’eterna emanazione della tua persona. Ma non funziona così, lo sai, l’abbracci più forte e lei è ancora un oggetto qualunque, troppo grande persino per entrare in una valigia.

A quante cose puoi rinunciare in cambio della libertà?

Cominci a contarle mentalmente, cominci dalla coperta, passi per le forbici, e basta guardarti intorno per scoprire centinaia di catene materiali che ti trascinano dentro quelle sbarre, seducendoti con la trappola del possesso. Non ti serve una coperta come quella, né ti servono i pennarelli colorati o l’album da disegno o lo stereo, i libri, la televisione, i peluches. Non ti serve la lampada azzurra, quando si accende si scalda e delle grosse bolle di cera, crea disegni bellissimi, superflui, inutili, non ti serve. Non l’hai mai usata e adesso la accendi, d’improvviso è l’ultima volta che la userai, che la vedrai, che potrai toccarla. E’ bellissima, la guardi nei suoi giochi di luce e le lacrime ricominciano a scendere, inasprite da una nostalgia che vede nel futuro e ti fa sorridere con amarezza. Domani non sarai più qui, lo capisci adesso che gli occhi si chiudono, stretti, e rinunciano alla tua lampada, strappandotela di dosso come se si trattasse di un secondo cuore. Il dolore che provi è quasi peggiore.

C’è silenzio, in casa. Dentro di te, le grida. E tu non sei altro che un piccolo essere senza forma, calciato nel vuoto, dove continuerai a precipitare. Ti senti così, mentre cominci a scrivere una lunga lista di cosa ti servirà per andare via. Lo fai su un foglio strappato, non è un progetto, è un piano di fuga disperato per un’anima costretta a respingere il proprio corpo per restare in vita.

E’ come morire – pensi, ed aggiungi lo spazzolino, alla tua lista, non il dentifricio perché quello te lo farai prestare. Solo le cose essenziali, ti ripeti, cercando di concentrarti sulla praticità. Ti concedi il diario che contiene i tuoi ultimi anni di vita, lo nasconderai in fondo alla valigia come un bene prezioso, anche se sono secoli che non ci scrivi nulla. Ma è il tuo certificato di vita, sai. La testimonianza che quello che hai fatto finora ha avuto un senso. Non sai come né quale, ma conti di rileggere quelle pagine centinaia di volte, finché i tuoi occhi un giorno non comprenderanno la verità. Aggiungi alla lista un paio di scarpe. Ti scrivi di contare i soldi che hai messo da parte, poi scegli di contarli subito e sono seicento. Da qui comincerà la tua vita a scadenza. Cerchi le forbici e non trovandole scegli di conficcare le unghie nei palmi, ti chiedi come facciano a farli sanguinare, nei film, e cosa se ne facciano di tutto quel dolore in cui tu stesso cerchi una risposta.

Il sonno arriva, ti coglie esausto.

Poi la mattina la sveglia suona, in casa non c’è nessuno, fai le valige, raccogli i resti del tuo mondo dentro qualche centimetro quadro di spazio, non lasci nemmeno un biglietto. In quella casa non c’è più spazio nemmeno per le parole, nemmeno per respirare. Abbandoni te stesso alle tue spalle, scivoli fuori verso il futuro che ti ha sempre terrorizzato, che anche ora ti terrorizza come una malattia, e scegli l’unica via rimasta in cui ti è concesso vivere. Quella che non sceglieresti mai se non fosse l’unica possibile.

E’ l’unica possibile.

Tua madre torna poco prima dell’addio. Non guardi più la lampada azzurra. C’è silenzio, lei ti chiede cosa fai.

Me ne vado – rispondi, e lo dici a te stesso come le parole di una guida, perché sei rimasto il solo a credere che lo puoi fare davvero. Ma ora ci crede anche lei, è ancora arrabbiata, il rancore è così denso che l’ultimo abbraccio sembra quello di due pareti. Crollano l’una sull’altra, puoi quasi sentire il boato che ogni frammento di muro provoca cadendo a terra, scontrandosi con l’altro, incapace di adeguarsi alla sua forma. Non c’è altro da dirsi, adesso. Entri in ascensore, carico di valige, e non guardi il piccolo cavallo di peluche che hai portato con te. L’ultima concessione che ti sei permesso, l’unico pezzo di te che è sopravvissuto.

Te ne vai sul serio, come nessuno credeva che avresti mai potuto fare.

Sull’autobus è difficile trovare posto. Hai una valigia enorme, diversi zaini e buste, il petto pesante come non lo era mai stato. Sali ed hai un deja-vu della notte prima, dove ogni posto è un addio, ogni luce del quartiere è l’ultima luce, ogni ricordo è l’ultimo. Intorno a te i volti rassicuranti di chi non sa nulla ti guardano senza troppa curiosità. Qualcuno ti aiuta a salire, qualcuno a scendere, altri ti ignorano, inseguendo i propri problemi. E la città intorno a te cambia, ogni chilometro percorso ti allontana da quello che eri, ti avvicina alla periferia di te stesso, dove ogni possibilità è peggiore di qualsiasi altra avevi osato pensare per te. Contempli mentalmente ciascuna possibile trasformazione, cosa farai, cosa sarai costretto a fare, se riuscirai a farlo. A volte, ancora lì seduto, ti accorgi che il tuo viso si riflette sul vetro del finestrino, mostrando l’immagine di una faccia che non hai potuto lasciare indietro. E’ la tua firma su quella colpa che avverti sulle spalle da quando avevi quelle forbici in mano.

Forse, a questo punto, la cosa più difficile da fare è fermarti, guardarti negli occhi e dirti che ce la farai. Perché farcela significherebbe ammettere che tutto quello che si è lasciato indietro, tutti quei ‘te stesso’ che avresti voluto portarti non erano davvero così importanti. Perché farcela vorrebbe dire ammettere che avevano ragione loro, ad insistere perché ci provassi. Che forse era solo una questione di volontà, che avresti potuto risolvere tutto semplicemente ascoltando le loro parole.

O magari no. Magari farcela significherebbe dimostrare a te stesso che non mentivi, quando ti dicevi che volevi aspettare il momento giusto. Che avresti potuto farcela in qualsiasi momento, ma non ce n’era la necessità. Che ti sei goduto ogni briciola, perché ora non è rimasto nient’altro. Che sapevi che non sarebbe stata una passeggiata, ed era per questo che, potendo, avresti voluto restare. Però era troppo da sopportare.

E’ troppo.

Alla fine di questa riflessione l’autobus annuncia la tua fermata. Devi scendere, lo fai pensando che tutto sommato non importa chi avesse ragione. Per una volta la concedi volentieri, essa non ha più alcun valore.

Entri in quella casa non tua e non riesci a sentire il sapore della libertà, sospettando che non sia mai esistito. Forse la libertà è l’ideale degli ingenui. Ogni bagaglio è il ricordo della povertà acquisita, ogni routine è quella di qualcun altro, ogni impegno è l’obbligo di una strada indesiderata. Ma non appena cominci a chiederti se ne sia valsa la pena tornano alla mente quelle grida, il sollievo delle forbici, il vuoto dello stomaco che non aveva cenato ed imitava perfettamente la desolazione interiore che provavi. Allora sistemi le tue cose sotto il letto a castello, in quel piccolo buco di stanza che qualcuno ti ha procurato, ed esci sul balcone, a respirare l’aria di una città nuova. Non sai ancora cosa ti aspetta, non sai quanto a lungo dovrai aspettare prima di cominciare a risalire, ma soprattutto non sai quanto in basso si possa ancora cadere. Hai gli occhi così aridi che quasi credi di non aver ancora sbattuto contro il fondo.

E’ così che succede. Ti scontri con i tuoi limiti, ti fai un male cane, piangi di una disperazione impossibile, perdi te stesso, perdi gli altri, dimentichi cosa significhi Essere, comprendi solo cosa significhi Esserci, qui ed ora. Soffri per ogni passo, temi ogni chiamata, e poi ad un certo punto è passato un mese, due, dieci, un anno. E non è andata né come speravi, né come temevi.

Allora, ecco, c’è una cosa che volevo dirti, a questo punto, mentre ti volgi al tuo futuro tremando su quel balcone. Guardo indietro di qualche anno, ti penso, penso a quello che eri, rileggo quel diario che ti sei portato dietro fino alla fine, e finalmente vedo davvero come sono andate le cose.

Finalmente quel riflesso non mi fa più paura.

Ce l’hai fatta. Sei sopravvissuto.