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Tributo a David Bowie

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Questo racconto è un tributo a David Bowie, in particolare alla sua canzone Five Years. Consiglio di leggerlo con questa di sottofondo.

L’uomo dei giornali piangeva, quel giorno. Quando lo vidi stringere tra le mani l’ultimo quotidiano, quando lo vidi stracciarne la prima pagina e poi ricomporla, mostrarla ai passanti, piangeva. E pianse ancora per oltre un’ora, continuò quando cominciò a piovere, le lacrime si mischiavano alla pioggia, continuò anche quando il sole si nascose dietro una luce bianca di maltempo. Pianse tutte le sue lacrime, non riuscì più a guardare la prima pagina, che pure era lì, e si mostrava, stropicciata, a pochi passi dal suo sguardo. L’uomo dei giornali piangeva, non poteva fare altro che ripetere la stessa litania, a chi passava. Sembrava incredibile, mai prima d’allora avrei pensato di poter credere a una cosa del genere, ma le sue lacrime mi dicevano che non mentiva. Sapevo che non mentiva.
– La Terra – diceva l’uomo dei giornali – la Terra sta morendo – ripeteva, il quotidiano prendeva il volo con una folata di vento, ma la notizia era ancora lì. Non era una bugia. Erano rimasti solo cinque anni, poi tutto sarebbe finito, così diceva lui. Così dicevano tutti gli uomini delle notizie, quel giorno. Avremmo pianto ancora per cinque anni, prima che la Terra si spegnesse. Cinque anni e poi ci saremmo spenti con lei.
Mi aggirai, da lì, come avrebbe fatto un fantasma. Lo eravamo già tutti, e tutti lo sapevamo. Tenevo le mani in tasca, guardavo il mondo, osservavo madri disperarsi e bambini fuggire via; guardavo nelle vetrine, mi specchiavo su quelle superfici e pensavo “diavolo, tutto questo dove finirà?”.
Le televisioni, le radio, i telefoni, le lavatrici, i computer, la musica..la musica! Dove sarebbe finito tutto questo? Avremmo dovuto essere pronti a lasciare ogni cosa entro cinque anni. Sarebbero mai bastati cinque anni? O dieci? O cento, o mille. Non pensavo che tutto questo avesse così importanza, per me. Camminando lungo i marciapiedi, muovendomi senza neppure accorgermi della strada che facevo, mi resi conto di come ogni oggetto, ogni singolo, piccolo pezzo di materia, avesse un posto dentro di me. In quel momento amai persino l’asfalto che calpestavo e compresi. Amavo così tanto, rimpiangevo così tanto, che non avrei mai potuto trovare posto per qualcos’altro, nella mia testa. Cinque anni, ma anche uno solo. Eravamo completamente pervasi dalla disperazione, lo saremmo stati da lì a un minuto, lo saremmo stati fino alla fine, fino all’ultimo respiro. Avremmo perso ogni cosa, questo mi tolse il fiato.

Percorsi numerose strade, quel giorno, incontrai tante persone. Mi sembra di ricordare il volto di ognuno di loro, la loro altezza, il colore dei loro occhi. Se potessi, disegnerei i tratti di ciascuno come in una fotografia. Donne o uomini, grassi o magri, persone che nel mondo significavano qualcosa, persone che nessuno avrebbe pianto mai e poi mai, persone-tutto, persone-niente. I loro volti erano d’improvviso tutti uguali. Erano tutti diversi. Camminai ancora e ad ogni passo sentii che non volevo lasciare nessuno di loro. Non potevo lasciare nessuno di loro, avevo bisogno di ogni singolo respiro e ogni singolo sguardo.
Non mi fermai, quando vidi un bambino fuggire. Aveva forse quattro anni, correva via goffamente, gridava. Una ragazza lo inseguiva, lo raggiunse, lo colpì con uno schiaffo. Lo colpì ancora. Non mi fermai, ora il bambino piangeva, era lei a gridare. Intorno, la pioggia cominciò a cadere, la donna colpì ancora il bambino. Sembrava impazzita, davvero, pensai che avrebbe continuato fino ad ucciderlo, e poi ancora, fino ad uccidere se stessa. Ma un uomo si avvicinò, le prese le braccia, la strinse forte, la strappò via da quella guerra e la tenne stretta per un’eternità. La pioggia si fece un po’ più forte, vidi i due lottare ed abbracciarsi, il bambino piangere ancora. Non mi fermai.
Persone in corsa, persone a terra, chi si dimenava, chi giaceva in ginocchio ed imprecava il cielo, chi rideva amaro o dimenticava se stesso. Vidi un soldato con un solo braccio, l’altro invisibile, mozzato, ed i suoi occhi guardare avanti. Verso una vita non sua, quella sacrificata per un senso che non vedeva più. Guardava un’auto, voleva quell’auto, era su quell’auto. Non era più un soldato. Lo sarebbe stato sempre.
Vidi uomini di fede perderla o acquistarla come se la luce venisse a mancare, o li travolgesse all’improvviso. Vidi un poliziotto gettarsi ai piedi di chi chiamava il Messia, lo vidi baciargli i piedi, vidi intere folle aggrapparsi ad una speranza che prima non trovava alcuno spazio al mondo. Vidi poi chi la speranza l’aveva perduta, chi attraversava la strada ad occhi chiusi, chi sfidava la pioggia gettandosi sotto il temporale. Un ragazzo svuotò lo stomaco sul marciapiede o sui piedi del poliziotto, lo vidi consapevole della fine che sarebbe giunta. Che nulla l’avrebbe salvato. Chi avrebbe mai salvato tutti noi?

Penso di averti visto davanti al chiosco dei gelati, quel giorno. Pioveva, faceva freddo, tirava un vento forte. Il mondo sarebbe finito di lì a cinque anni. E tu sedevi quieto, su una panchina, avevi tra le mani un bicchiere colorato. Un milkshake, e te ne stavi su quella panchina senza ombre, lo sorseggiavi lentamente, senza alcuna fretta. Sorridevi, ondeggiavi come se la musica ti spingesse a farlo. C’era mai stata una musica? Sorridevi e sembravi così bello, stavi così bene, tu, mentre il mondo correva verso la sua fine.
La disperazione scuoteva la nostra Terra e tu non te ne curavi. L’unico, il solo oggetto reale che restava, o la sola illusione che si potesse concepire a quel punto. Mi avvicinai come guidato da invisibili fili. Mi guardai sedere al tuo fianco, ti guardai rivolgerti gentile a quel corpo, non più fantasma ma attore. E parlammo per ore, parlammo di ogni cosa, parlammo di nulla e di tutto, e faceva freddo, pioveva, sentivo la vita tornare. Avrei voluto salutare mia madre, ti parlai di lei, che mi mancava, e di mio padre che avrebbe alzato il pugno soddisfatto. “L’avevo detto io” e l’aveva detto davvero, mio padre. Parlammo di te, e ancora di me. E degli anni passati, e degli anni futuri, finché il giorno non si esaurì e con esso le parole. Chiunque tu fossi, ti baciai. Allora mi guardai, la mia faccia, il colore della mia pelle, il modo in cui avevamo parlato. Bellissimi, sotto la pioggia, la fine del mondo negli occhi, la testa dolorante, non ci restavano che quei giorni.

Adesso ne sono sicuro: su quella panchina non sapevi affatto di essere in questo racconto.
Sulla stessa panchina, per un attimo, lo dimenticai anch’io.