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Apologia del Libro Vero

Questo non è un Libro.

Scontrandomi con me stessa, guardo alla mia opera con l’orgoglio di un genitore. Eppure mi capita, a volte, di pensare che no, quello non è un Libro. Non solo per la sua forma digitale, dai contorni impalpabili e volatili, come si potrebbe pensare in un primo momento. Sento che quella è una mia creatura, ma la rinnego, non la chiamo Libro. Libro è troppo. Libro è altro.

Cos’è un Libro?

Il Libro è quello che scrivono i grandi scrittori. Anche se non ci piace, anche se si chiama, chessò, Cinquanta Sfumature di Grigio, quello è un Libro. Quello che si può comprare ad un prezzo alto, ma soprattutto quello che si può vendere, ad un prezzo alto. Quello che spinge l’editore ad investire una piccola fortuna, quello in cui qualcuno ha creduto fino al punto di spingerlo nelle librerie – non i Caffè Letterari, non le Librerie Indipendenti, badate bene. La Feltrinelli, semmai, la Mondadori. QUELLE librerie. E’ lì che troviamo il Libro. Il Libro Vero, con le maiuscole ovunque si possano mettere le maiuscole. Il Libro che quando lo hai letto puoi parlarne con gli amici. Non importa che ti sia piaciuto, solo che se ne parli, che te ne possa vantare se non altro per cultura. Il libro di cui si parla, quello è un Libro. Che poi è così che ha avuto successo, se ne è parlato. Ma da dove è iniziato, questo passaparola, poi? Da chi? Il Libro è quello che vende sia in cartaceo che in digitale. E’ quello che ha almeno 200 pagine, ma sarebbe meglio ne avesse 300, tanto alla fine scorre. Libro è quello di J.K Rowling ma anche quello di Francesco Sole, che non è proprio un libro vero, ma forse sì, perché è così che dicono: lui ha scritto un Libro. Quindi Libro è chi lo scrive o chi lo vende. Libro è quello che non ha bisogno di scrivere ai blog letterari, ai forum, alle pagine Facebook che oggi lo trovate gratis, o che domani c’è la promozione con il 50% di sconto. E’ quello che si vende da solo, anche al supermercato, tra i libri-gioco per bambini e i ricettari per casalinghe.

Allora riflettendo su tutto questo a volte penso di non essere uno scrittore. Anzi, uno Scrittore.
Perché lo Scrittore è quello che scrive un Libro, quello di cui ti ricordi il nome, quello per cui sei disposto ad arrivare anche alla seconda pagina di Google, per cui vale la pena cercare anche dopo che il primo link ha fatto cilecca. Quello con settantacinque recensioni su Amazon, belle o brutte, ma probabilmente autentiche. Io arrivo a otto e chissà quante non sono state scritte da parenti e amici. Avrei dovuto nascere in una famiglia più numerosa. O più furba. O più colta.

L’Identità dello Scrittore è complessa, indefinita, senza limiti. Me ne accorgo rileggendomi, che non so Chi sono e non so Cosa voglio. E che vorrei che foste voi o gli altri o chiunque a chiamarmi Scrittore, perché da sola non ce la faccio. Da sola mi sembra di sussurrarlo in mezzo a giganti che se lo sentono gridare dalle montagne, e che invece di portarmi sulle loro spalle mi calpestano. Ignari, per carità. O ciechi. Comunque uno gnomo tra i giganti, che insomma, quanto può durare?

Eppure, mentre voi ed io diciamo che quell’operetta Libro non è di certo, storpia e piccola e immatura e digitale, lei è venuta alla luce là dove centinaia di altre opere sono rimaste incompiute. Non sarà degna della maiuscola, ma forse ce l’ha fatta, a guadagnarsi almeno la parola.

libro

Alle tue spalle

Sono passati pochi minuti dalla fine delle urla. Non credevi che fosse possibile arrivare a tanto per così poco, ora ci credi. A terra, poggiato con la schiena contro il muro, gli occhi sgranati dal pianto ma soprattutto dall’incredulità, le lacrime immobili, che bruciano come una punizione. E ti piace che sia così, vuoi che brucino ancora, più a lungo, speri che entrino sotto la tua pelle come un veleno, cancellino la vista, ti costringano ad un’umile condizione di cui lamentarti. E’ così. Più facile se sei la vittima di qualcun altro, e non di te stesso. Se puoi gettare secchiate di responsabilità sul mondo, persino sacrificando una parte del tuo corpo, pur di non essere contaminato dalla colpa delle tue stesse mani.

Ma le lacrime non sono veleno, non uccidono e fanno solo male, così ti trovi a contemplare dolorosamente una parete vitrea, che si scioglie sulle tue guance poco dopo, lasciando una traccia salata sulla pelle. Le senti seccare, dev’essere passato del tempo, ma sei ancora lì, nella stessa posizione che occupavi qualche lungo minuto fa.

Al tuo fianco ci sono delle lunghe forbici dalle lame affilate. Quando non ha funzionato il veleno hai provato con quelle, approfittando codardamente dell’adrenalina che avevi in corpo per evitare di sentire dolore, mentre ti torturavi. Pensavi di punirti ma adesso non ne sei più tanto sicuro. Anche le forbici ti volevano immacolato, sporco di sangue ma pulito come solo una vittima riesce ad essere, sotto una strage di ferite auto-inflitte. Avvicini la mano al polpaccio, percorri quel lungo graffio con la punta dell’indice e capisci che non vuoi davvero sapere che cosa significhi, quello che ti sei fatto. Ti concentri, piuttosto, sul pensiero più facile:

– Incredibile che mi abbiate costretto a tanto –

Lo sai bene, la responsabilità non è solo la tua. Né solo la loro. La porta è chiusa a chiave, la guardi come una prigione e ti accorgi di temerla come un animale che non ha mai vissuto in libertà. E’ così bella la tua stanza, la osservi con l’affetto di un amante mentre ti sdrai sul letto, ed abbracci la coperta cercando di farla tua, di vincerne i limiti fisici, di renderla un’eterna emanazione della tua persona. Ma non funziona così, lo sai, l’abbracci più forte e lei è ancora un oggetto qualunque, troppo grande persino per entrare in una valigia.

A quante cose puoi rinunciare in cambio della libertà?

Cominci a contarle mentalmente, cominci dalla coperta, passi per le forbici, e basta guardarti intorno per scoprire centinaia di catene materiali che ti trascinano dentro quelle sbarre, seducendoti con la trappola del possesso. Non ti serve una coperta come quella, né ti servono i pennarelli colorati o l’album da disegno o lo stereo, i libri, la televisione, i peluches. Non ti serve la lampada azzurra, quando si accende si scalda e delle grosse bolle di cera, crea disegni bellissimi, superflui, inutili, non ti serve. Non l’hai mai usata e adesso la accendi, d’improvviso è l’ultima volta che la userai, che la vedrai, che potrai toccarla. E’ bellissima, la guardi nei suoi giochi di luce e le lacrime ricominciano a scendere, inasprite da una nostalgia che vede nel futuro e ti fa sorridere con amarezza. Domani non sarai più qui, lo capisci adesso che gli occhi si chiudono, stretti, e rinunciano alla tua lampada, strappandotela di dosso come se si trattasse di un secondo cuore. Il dolore che provi è quasi peggiore.

C’è silenzio, in casa. Dentro di te, le grida. E tu non sei altro che un piccolo essere senza forma, calciato nel vuoto, dove continuerai a precipitare. Ti senti così, mentre cominci a scrivere una lunga lista di cosa ti servirà per andare via. Lo fai su un foglio strappato, non è un progetto, è un piano di fuga disperato per un’anima costretta a respingere il proprio corpo per restare in vita.

E’ come morire – pensi, ed aggiungi lo spazzolino, alla tua lista, non il dentifricio perché quello te lo farai prestare. Solo le cose essenziali, ti ripeti, cercando di concentrarti sulla praticità. Ti concedi il diario che contiene i tuoi ultimi anni di vita, lo nasconderai in fondo alla valigia come un bene prezioso, anche se sono secoli che non ci scrivi nulla. Ma è il tuo certificato di vita, sai. La testimonianza che quello che hai fatto finora ha avuto un senso. Non sai come né quale, ma conti di rileggere quelle pagine centinaia di volte, finché i tuoi occhi un giorno non comprenderanno la verità. Aggiungi alla lista un paio di scarpe. Ti scrivi di contare i soldi che hai messo da parte, poi scegli di contarli subito e sono seicento. Da qui comincerà la tua vita a scadenza. Cerchi le forbici e non trovandole scegli di conficcare le unghie nei palmi, ti chiedi come facciano a farli sanguinare, nei film, e cosa se ne facciano di tutto quel dolore in cui tu stesso cerchi una risposta.

Il sonno arriva, ti coglie esausto.

Poi la mattina la sveglia suona, in casa non c’è nessuno, fai le valige, raccogli i resti del tuo mondo dentro qualche centimetro quadro di spazio, non lasci nemmeno un biglietto. In quella casa non c’è più spazio nemmeno per le parole, nemmeno per respirare. Abbandoni te stesso alle tue spalle, scivoli fuori verso il futuro che ti ha sempre terrorizzato, che anche ora ti terrorizza come una malattia, e scegli l’unica via rimasta in cui ti è concesso vivere. Quella che non sceglieresti mai se non fosse l’unica possibile.

E’ l’unica possibile.

Tua madre torna poco prima dell’addio. Non guardi più la lampada azzurra. C’è silenzio, lei ti chiede cosa fai.

Me ne vado – rispondi, e lo dici a te stesso come le parole di una guida, perché sei rimasto il solo a credere che lo puoi fare davvero. Ma ora ci crede anche lei, è ancora arrabbiata, il rancore è così denso che l’ultimo abbraccio sembra quello di due pareti. Crollano l’una sull’altra, puoi quasi sentire il boato che ogni frammento di muro provoca cadendo a terra, scontrandosi con l’altro, incapace di adeguarsi alla sua forma. Non c’è altro da dirsi, adesso. Entri in ascensore, carico di valige, e non guardi il piccolo cavallo di peluche che hai portato con te. L’ultima concessione che ti sei permesso, l’unico pezzo di te che è sopravvissuto.

Te ne vai sul serio, come nessuno credeva che avresti mai potuto fare.

Sull’autobus è difficile trovare posto. Hai una valigia enorme, diversi zaini e buste, il petto pesante come non lo era mai stato. Sali ed hai un deja-vu della notte prima, dove ogni posto è un addio, ogni luce del quartiere è l’ultima luce, ogni ricordo è l’ultimo. Intorno a te i volti rassicuranti di chi non sa nulla ti guardano senza troppa curiosità. Qualcuno ti aiuta a salire, qualcuno a scendere, altri ti ignorano, inseguendo i propri problemi. E la città intorno a te cambia, ogni chilometro percorso ti allontana da quello che eri, ti avvicina alla periferia di te stesso, dove ogni possibilità è peggiore di qualsiasi altra avevi osato pensare per te. Contempli mentalmente ciascuna possibile trasformazione, cosa farai, cosa sarai costretto a fare, se riuscirai a farlo. A volte, ancora lì seduto, ti accorgi che il tuo viso si riflette sul vetro del finestrino, mostrando l’immagine di una faccia che non hai potuto lasciare indietro. E’ la tua firma su quella colpa che avverti sulle spalle da quando avevi quelle forbici in mano.

Forse, a questo punto, la cosa più difficile da fare è fermarti, guardarti negli occhi e dirti che ce la farai. Perché farcela significherebbe ammettere che tutto quello che si è lasciato indietro, tutti quei ‘te stesso’ che avresti voluto portarti non erano davvero così importanti. Perché farcela vorrebbe dire ammettere che avevano ragione loro, ad insistere perché ci provassi. Che forse era solo una questione di volontà, che avresti potuto risolvere tutto semplicemente ascoltando le loro parole.

O magari no. Magari farcela significherebbe dimostrare a te stesso che non mentivi, quando ti dicevi che volevi aspettare il momento giusto. Che avresti potuto farcela in qualsiasi momento, ma non ce n’era la necessità. Che ti sei goduto ogni briciola, perché ora non è rimasto nient’altro. Che sapevi che non sarebbe stata una passeggiata, ed era per questo che, potendo, avresti voluto restare. Però era troppo da sopportare.

E’ troppo.

Alla fine di questa riflessione l’autobus annuncia la tua fermata. Devi scendere, lo fai pensando che tutto sommato non importa chi avesse ragione. Per una volta la concedi volentieri, essa non ha più alcun valore.

Entri in quella casa non tua e non riesci a sentire il sapore della libertà, sospettando che non sia mai esistito. Forse la libertà è l’ideale degli ingenui. Ogni bagaglio è il ricordo della povertà acquisita, ogni routine è quella di qualcun altro, ogni impegno è l’obbligo di una strada indesiderata. Ma non appena cominci a chiederti se ne sia valsa la pena tornano alla mente quelle grida, il sollievo delle forbici, il vuoto dello stomaco che non aveva cenato ed imitava perfettamente la desolazione interiore che provavi. Allora sistemi le tue cose sotto il letto a castello, in quel piccolo buco di stanza che qualcuno ti ha procurato, ed esci sul balcone, a respirare l’aria di una città nuova. Non sai ancora cosa ti aspetta, non sai quanto a lungo dovrai aspettare prima di cominciare a risalire, ma soprattutto non sai quanto in basso si possa ancora cadere. Hai gli occhi così aridi che quasi credi di non aver ancora sbattuto contro il fondo.

E’ così che succede. Ti scontri con i tuoi limiti, ti fai un male cane, piangi di una disperazione impossibile, perdi te stesso, perdi gli altri, dimentichi cosa significhi Essere, comprendi solo cosa significhi Esserci, qui ed ora. Soffri per ogni passo, temi ogni chiamata, e poi ad un certo punto è passato un mese, due, dieci, un anno. E non è andata né come speravi, né come temevi.

Allora, ecco, c’è una cosa che volevo dirti, a questo punto, mentre ti volgi al tuo futuro tremando su quel balcone. Guardo indietro di qualche anno, ti penso, penso a quello che eri, rileggo quel diario che ti sei portato dietro fino alla fine, e finalmente vedo davvero come sono andate le cose.

Finalmente quel riflesso non mi fa più paura.

Ce l’hai fatta. Sei sopravvissuto.

Promozione dei libri su Amazon

Una volta pubblicato l’ebook con KDP (Kindle Direct Publishing) ed iscritti a KDP Select, si ha la possibilità di mettere il proprio libro in offerta per cinque giorni ogni tre mesi, in modo che sia scaricabile gratuitamente (promozione dei libri su Amazon ). A cosa serve? Chiaramente a indurre la gente a scaricarlo guadagnandoci in visibilità e perché no, in recensioni positive. Per questo motivo ho scelto di partecipare al programma, informandomi su diversi blog su quale fosse la strategia migliore e decidendo di cominciare con un giorno singolo di promozione, per fare una prova- giorno che poi sono diventati due per inseguire l’onda del “successo”. Di seguito leggerete che cosa è successo durante questo piccolo esperimento.
Da premettere: nel momento della promozione Amazon non aveva ancora trasferito le recensioni positive che avevo sul nuovo link, per cui il libro risultava ufficialmente sprovvisto di qualunque feedback agli occhi dei compratori.

Un po’ di numeri:

N° copie scaricate il 1°gg: 38
N° copie scaricate il 2°gg: 50
Max posizione in classifica raggiunta (Top 100 libri gratuiti): #28
Max posizione in classifica nella sezione Racconti (Top 100 racconti gratuiti): #1

tooop

Considerazioni:

Se inizialmente sono partita con grandi aspettative riguardo a questa promozione, le ho dovute ridimensionare dopo poche ore, rendendomi conto di come il numero di download fosse tutto sommato piuttosto basso rispetto ai grandi numeri osannati in giro per il web. Nonostante questo posso affermare molto tranquillamente che il numero di download gratuiti totali che ho raggiunto in due giorni è ben quattro volte più grande di quello raggiunto nelle vendite a pagamento (0,99€) quando il libro era in vendita tramite Narcissus – per saperne di più ho scritto un articolo a riguardo. Ad una prima occhiata, dunque, mi potrei dire soddisfatta del traguardo raggiunto. La prima cosa che ho pensato è stata che adesso 88 persone avrebbero potuto leggere la mia opera e, forse, qualcuna di loro l’avrebbe consigliata ad altri o l’avrebbe recensita. Ho anche pensato che la mia posizione tra i libri a pagamento, dopo la promozione, sarebbe salita molto rispetto a prima. Entrambe le cose sono piccole verità, ma parziali. E’ vero che oltre ottanta persone hanno scaricato l’ebook, ma è pur vero che molti erano amici e conoscenti e molti altri saranno stati quelli che mi piace definire scaricatori seriali, ovvero quegli acquirenti che scaricano qualunque cosa sia gratuita, senza per questo degnarsi di leggerla – sottolineo che sono una di loro, mea culpa. Per quel che riguarda la classifica dei libri a pagamento, poi, sono effettivamente salita di qualche migliaio di posti, ma non ho mai superato il #400, almeno nelle successive tre giornate. E’ chiaro che si tratti comunque di un buon risultato, ma a questo punto è difficile non trarre alcune conclusioni che lascerò qui di seguito.

Conclusioni:

Prima di tutto, l’alta visibilità che si acquisisce con la promozione gratuita su Amazon, accompagnata dallo spam selvaggio su qualsiasi piattaforma web/social/etc possibile, è assolutamente effimera e non è che un piccolo passo. Una volta terminata la promozione, infatti, si torna ad essere immersi nel mare di pubblicazioni offerte dal sito, senza alcuna possibilità di riemergere (immagino a meno di non aver ricevuto un numero incredibile di downloads, e in tal caso beati voi!) almeno fino alla promozione successiva.
Secondariamente, la classifica dei libri gratuiti non ha nulla a che vedere con quella dei libri a pagamento – tranne forse la dinamicità – ben più difficile da scalare.

Infine vorrei portare alla vostra attenzione due dettagli a cui forse non tutti farebbero caso:

> Un amico che si iscriva ad Amazon unicamente per scaricare la vostra opera gratuita non potrà recensirla, a meno che non abbia comprato almeno un altro prodotto (COMPRATO, dunque non vale tutto ciò che è gratis). Spero sia chiaro che per recensire, inoltre, è necessario avere un account.

> Chiunque non sia in possesso di un Kindle e non gradisca leggere da un dispositivo quali tablet, computer o telefono, dovrà rinunciare alla lettura del vostro libro nel caso siate iscritti al programma KDP Select (e quindi abbiate rinunciato a pubblicare altrove in altri formati come il pdf o l’epub). Da notare che Amazon mette a disposizione un’app gratuita per leggere il formato Kindle da qualunque dispositivo elettronico.Una nota positiva, questa.

L’importanza del Lettore Sconosciuto

Scrivi un libro, una storia, un racconto, qualcosa. Te lo pubblichi da solo, perché adesso è così, si può fare, ti leggeranno. E lo mandi a più persone possibile, amici, parenti, fidanzata, amici di amici, parenti di amici, tutta la (piccola) rete a cui puoi fare riferimento. Non è che preghi, però tra le righe suggerisci di recensirti, o magari nemmeno tra le righe, perché tanto gli è piaciuto o così dicono, ti convinci che non sia una cosa di parte. Magari non lo è davvero, eh. Ma quella pulce nell’orecchio ce l’hai, che tutta questa sia accondiscendenza, che il parere positivo di tutte queste persone non sia poi così sincero, o lo sia ma influenzato dalla benevolenza che ciascuno ha nei tuoi confronti.

Non nego l’importanza di chi voglia incoraggiarmi né quella di chi effettivamente ha stimato il mio lavoro in qualche forma, tuttavia personalmente non riesco ad apprezzare del tutto questo tipo di feedback. O meglio, lo apprezzo ma il suo valore lo avverto come molto limitato. Mi rendo conto che possa sembrare offensivo nei confronti di chi ha messo la sua sincerità al servizio di una critica al mio lavoro, ma è innegabile: le critiche positive di chi mi conosce non posso considerarle come il raggiungimento di un traguardo intero. Forse un pezzetto. Ma non tutto.

Una sera, mentre riguardi per la quindicesima volta la tua pagina su Amazon, tu, unica a farlo, alla ricerca di una risposta che non arriva, decidi per l’ennesima volta di fare quello sforzo odioso di promuoverti ricordando ai venti siti a cui ti sei iscritta che ci sei anche tu. E la tua opera. Apri il forum, vai sul post autodedicato al tuo libro e toh, qualcuno ha commentato. A nulla serve il pessimismo che già immagina che si tratti del moderatore del sito, nulla a che fare con il contenuto del post, perché quando lo apri vieni sorprendentemente smentito.

Quello che mi è capitato è stato leggere il commento di una persona, uno sconosciuto, che aveva letto il mio racconto per davvero, e aveva commentato per davvero, e mi aveva cercata, perché gli era piaciuto. Per davvero. Lui lo sa già,  ma lo scrivo anche qui perché ritengo questo momento un nodo importantissimo del mio percorso: che qualcuno sia rimaso colpito da quanto da me creato al punto di volermelo comunicare, al punto di fare quello sforzo di cercare altre recensioni o informazioni, una “piccolezza” di cui nemmeno la mia rete di conoscenze è stata capace, è una soddisfazione estrema e, finalmente, completa.

Questo è, finora, per me, uno dei frutti più importanti di quello che ho fatto.

Perchè pubblicare su Amazon con KDP

Dopo due mesi e mezzo dall’auto-pubblicazione in digitale del mio libro tramite il sito Narcissus, ho preso una decisione su cui riflettevo da tempo: ritirare il libro dalla vendita su Amazon da Narcissus, e ri- pubblicare su Amazon con KDP (Kindle Direct Publishing).

Che significa?

Come ho spiegato più approfonditamente in questo articolo, pubblicare con Narcissus permette di vedere il proprio ebook pubblicato su un gran numero di piattaforme online, Amazon compreso. Da un lato questo permette di gestire tali pubblicazioni da un solo pannello, senza doverlo fare da ciascun sito, uno alla volta. Dall’altro lato, questo tipo di pubblicazione impedisce di accedere ad alcune impostazioni particolari che certi siti mettono a disposizione.

Perchè pubblicare su Amazon con KDP

Per quel che mi riguarda, il limite più grande è stato quello di Amazon, per cui la scelta delle categorie giuste è stato solo uno dei problemi, a cui si sono affiancate l’impossibilità di inserire delle parole chiave di ricerca per il libro e, soprattutto, l’incapacità di accedere ai programmi promozionali messi a disposizione dal sito.

LIMITI DI NARCISSUS CON AMAZON:
1) Categorie che non corrispondono (impossibile scegliere quelle giuste su Amazon)
2) Impossibilità di inserimento di parole di ricerca
3) Inaccessibilità dei programmi promozionali

Inizialmente credevo che queste piccole limitazioni non fossero che dettagli, tuttavia allo stato attuale delle cose credo abbiano contribuito a rendere il mio titolo completamente inaccessibile a chi non ne conosca il nome. La ricerca per categoria non funziona, quella per parole nemmeno nè quella per titoli gratuiti – promozione che KDP permette 5 preziosissime volte ogni tre mesi.

Perchè pubblicare su Amazon con KDP

Insomma, per concludere ho deciso che sarebbe stato meglio sfruttare la piattaforma di KDP al meglio, in tutte le sue potenzialità. Per farlo ho contattato prima di tutto il servizio d’Aiuto di Amazon, chiedendo se la ripubblicazione avrebbe implicato la perdita di tutte le recensioni sul libro, o se, in qualche modo, fosse possibile collegare la vecchia versione alla nuova: ebbene, è possibile! Ripubblicare tramite KDP farà perdere la posizione in classifica e la data di pubblicazione, ma le recensioni e alcuni dati potranno essere ritrasferiti. O così mi dicono, non resta che testare in prima persona!

 

Tributo a David Bowie

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Questo racconto è un tributo a David Bowie, in particolare alla sua canzone Five Years. Consiglio di leggerlo con questa di sottofondo.

L’uomo dei giornali piangeva, quel giorno. Quando lo vidi stringere tra le mani l’ultimo quotidiano, quando lo vidi stracciarne la prima pagina e poi ricomporla, mostrarla ai passanti, piangeva. E pianse ancora per oltre un’ora, continuò quando cominciò a piovere, le lacrime si mischiavano alla pioggia, continuò anche quando il sole si nascose dietro una luce bianca di maltempo. Pianse tutte le sue lacrime, non riuscì più a guardare la prima pagina, che pure era lì, e si mostrava, stropicciata, a pochi passi dal suo sguardo. L’uomo dei giornali piangeva, non poteva fare altro che ripetere la stessa litania, a chi passava. Sembrava incredibile, mai prima d’allora avrei pensato di poter credere a una cosa del genere, ma le sue lacrime mi dicevano che non mentiva. Sapevo che non mentiva.
– La Terra – diceva l’uomo dei giornali – la Terra sta morendo – ripeteva, il quotidiano prendeva il volo con una folata di vento, ma la notizia era ancora lì. Non era una bugia. Erano rimasti solo cinque anni, poi tutto sarebbe finito, così diceva lui. Così dicevano tutti gli uomini delle notizie, quel giorno. Avremmo pianto ancora per cinque anni, prima che la Terra si spegnesse. Cinque anni e poi ci saremmo spenti con lei.
Mi aggirai, da lì, come avrebbe fatto un fantasma. Lo eravamo già tutti, e tutti lo sapevamo. Tenevo le mani in tasca, guardavo il mondo, osservavo madri disperarsi e bambini fuggire via; guardavo nelle vetrine, mi specchiavo su quelle superfici e pensavo “diavolo, tutto questo dove finirà?”.
Le televisioni, le radio, i telefoni, le lavatrici, i computer, la musica..la musica! Dove sarebbe finito tutto questo? Avremmo dovuto essere pronti a lasciare ogni cosa entro cinque anni. Sarebbero mai bastati cinque anni? O dieci? O cento, o mille. Non pensavo che tutto questo avesse così importanza, per me. Camminando lungo i marciapiedi, muovendomi senza neppure accorgermi della strada che facevo, mi resi conto di come ogni oggetto, ogni singolo, piccolo pezzo di materia, avesse un posto dentro di me. In quel momento amai persino l’asfalto che calpestavo e compresi. Amavo così tanto, rimpiangevo così tanto, che non avrei mai potuto trovare posto per qualcos’altro, nella mia testa. Cinque anni, ma anche uno solo. Eravamo completamente pervasi dalla disperazione, lo saremmo stati da lì a un minuto, lo saremmo stati fino alla fine, fino all’ultimo respiro. Avremmo perso ogni cosa, questo mi tolse il fiato.

Percorsi numerose strade, quel giorno, incontrai tante persone. Mi sembra di ricordare il volto di ognuno di loro, la loro altezza, il colore dei loro occhi. Se potessi, disegnerei i tratti di ciascuno come in una fotografia. Donne o uomini, grassi o magri, persone che nel mondo significavano qualcosa, persone che nessuno avrebbe pianto mai e poi mai, persone-tutto, persone-niente. I loro volti erano d’improvviso tutti uguali. Erano tutti diversi. Camminai ancora e ad ogni passo sentii che non volevo lasciare nessuno di loro. Non potevo lasciare nessuno di loro, avevo bisogno di ogni singolo respiro e ogni singolo sguardo.
Non mi fermai, quando vidi un bambino fuggire. Aveva forse quattro anni, correva via goffamente, gridava. Una ragazza lo inseguiva, lo raggiunse, lo colpì con uno schiaffo. Lo colpì ancora. Non mi fermai, ora il bambino piangeva, era lei a gridare. Intorno, la pioggia cominciò a cadere, la donna colpì ancora il bambino. Sembrava impazzita, davvero, pensai che avrebbe continuato fino ad ucciderlo, e poi ancora, fino ad uccidere se stessa. Ma un uomo si avvicinò, le prese le braccia, la strinse forte, la strappò via da quella guerra e la tenne stretta per un’eternità. La pioggia si fece un po’ più forte, vidi i due lottare ed abbracciarsi, il bambino piangere ancora. Non mi fermai.
Persone in corsa, persone a terra, chi si dimenava, chi giaceva in ginocchio ed imprecava il cielo, chi rideva amaro o dimenticava se stesso. Vidi un soldato con un solo braccio, l’altro invisibile, mozzato, ed i suoi occhi guardare avanti. Verso una vita non sua, quella sacrificata per un senso che non vedeva più. Guardava un’auto, voleva quell’auto, era su quell’auto. Non era più un soldato. Lo sarebbe stato sempre.
Vidi uomini di fede perderla o acquistarla come se la luce venisse a mancare, o li travolgesse all’improvviso. Vidi un poliziotto gettarsi ai piedi di chi chiamava il Messia, lo vidi baciargli i piedi, vidi intere folle aggrapparsi ad una speranza che prima non trovava alcuno spazio al mondo. Vidi poi chi la speranza l’aveva perduta, chi attraversava la strada ad occhi chiusi, chi sfidava la pioggia gettandosi sotto il temporale. Un ragazzo svuotò lo stomaco sul marciapiede o sui piedi del poliziotto, lo vidi consapevole della fine che sarebbe giunta. Che nulla l’avrebbe salvato. Chi avrebbe mai salvato tutti noi?

Penso di averti visto davanti al chiosco dei gelati, quel giorno. Pioveva, faceva freddo, tirava un vento forte. Il mondo sarebbe finito di lì a cinque anni. E tu sedevi quieto, su una panchina, avevi tra le mani un bicchiere colorato. Un milkshake, e te ne stavi su quella panchina senza ombre, lo sorseggiavi lentamente, senza alcuna fretta. Sorridevi, ondeggiavi come se la musica ti spingesse a farlo. C’era mai stata una musica? Sorridevi e sembravi così bello, stavi così bene, tu, mentre il mondo correva verso la sua fine.
La disperazione scuoteva la nostra Terra e tu non te ne curavi. L’unico, il solo oggetto reale che restava, o la sola illusione che si potesse concepire a quel punto. Mi avvicinai come guidato da invisibili fili. Mi guardai sedere al tuo fianco, ti guardai rivolgerti gentile a quel corpo, non più fantasma ma attore. E parlammo per ore, parlammo di ogni cosa, parlammo di nulla e di tutto, e faceva freddo, pioveva, sentivo la vita tornare. Avrei voluto salutare mia madre, ti parlai di lei, che mi mancava, e di mio padre che avrebbe alzato il pugno soddisfatto. “L’avevo detto io” e l’aveva detto davvero, mio padre. Parlammo di te, e ancora di me. E degli anni passati, e degli anni futuri, finché il giorno non si esaurì e con esso le parole. Chiunque tu fossi, ti baciai. Allora mi guardai, la mia faccia, il colore della mia pelle, il modo in cui avevamo parlato. Bellissimi, sotto la pioggia, la fine del mondo negli occhi, la testa dolorante, non ci restavano che quei giorni.

Adesso ne sono sicuro: su quella panchina non sapevi affatto di essere in questo racconto.
Sulla stessa panchina, per un attimo, lo dimenticai anch’io.

Farsi conoscere come scrittore(?): incapacità congenita

Farsi conoscere come scrittore è una sfida ardua. Persino scrittori con un curriculum piuttosto notevole incontrano l’ostacolo dell’anonimato, in un panorama letterario dove i libri vengono acquistati e quindi letti soprattutto grazie al passaparola. Oltre alla necessità di raggiungere più persone possibile, specie se parliamo di ebook autopubblicati, mi sto lentamente accorgendo di una banalità: allargare il bacino di lettori oltre parenti, amici e conoscenti è un traguardo già piuttosto importante. E molto, molto difficile.
Anche in questo caso l’inesperienza convince a cominciare dal basso, dal partecipare a qualunque iniziativa a cui si viene invitati, all’inviare gratuitamente il manoscritto a chi potrebbe essere interessato a leggerlo ed eventualmente dare un feedback, tuttavia non nego di avere l’impressione che queste mosse capillari siano un piccolo buco nell’acqua. Fa sempre piacere che qualcuno si mostri interessato, ma il punto è proprio in quanto detto prima: il passaparola, che non avviene.
Ho sempre pensato, ingenuamente, che se un libro fosse stato valido, allora sarebbe stato apprezzato da un buon numero di lettori, non tenendo conto del fatto che un libro, per essere apprezzato deve anche essere letto – una fatica da non sottovalutare, a quanto pare.

Per il momento mi sono mossa solo tramite canali molto piccoli: iscrizioni a gruppi sui social, siti web, blog di svariato genere; ho inviato qualche mail ai siti che offrivano servizi di recensioni – critiche nel bene e nel male, non a pagamento – senza mai ricevere alcuna risposta; mi sono iscritta al conosciuto e a mio avviso molto utile Writer’s Dream, un sito (e forum) per scrittori visitato da chi la pubblicazione ancora se la sogna e da chi, invece, ha raggiunto il proprio scopo con prodotti notevoli; ho contattato amici di amici che si interessassero di scrittura e proposto loro la lettura del mio racconto. Con una certa amarezza quello che ha avuto più successo, tra tutte queste cose – lo dico sottolineandovi il caso particolare. Sono certa che non valga per tutti – è stato il passaparola ad amici di parenti. Gli adulti che hanno saputo di questo libro sono stati i più disponibili non solo alla lettura, ma anche alla recensione.

Sono del parere che non tutti siano capaci di autopromuoversi, e non per una questione di abilità mancante, quanto per una questione morale. Per quel che mi riguarda, e non sono l’unica, non tutti riescono a trattare il proprio come un prodotto che bisogna indurre gli altri a comprare. Se lo scopo è quello di essere apprezzati a prescindere dalla pubblicità e da quanto si è bravi a “spingere il proprio carro“, allora l’autopromozione diventa un piccolo tabù non indifferente che personalmente non sono ancora stata in grado di superare come avrei voluto.

Farsi conoscere come scrittore

Per quel che riguarda le piccole occasioni, i concorsi, le riviste di narrativa e via dicendo, ho scoperto proprio in questi giorni quello che per me è un limite ma che per alcuni potrebbe essere un suggerimento interessante: produrre del materiale pronto all’uso, nel caso qualcuno lo richieda per valutare il vostro stile o includerlo in eventuali raccolte. Se molti hanno spesso decine di cartelle piene di racconti, raccontini, romanzi e quant’altro, non è cosa scontata per tutti, e non tutti riescono a lavorare sotto pressione nel caso che tale materiale venga richiesto in tempi brevi, pena la perdita di un’occasione.

Il mio consiglio è, perciò, di avere pronto del materiale interessante da proporre per “presentarvi”, un po’ come il portfolio di qualunque altro genere di artista, e di cui con la scrittura non si parla mai. E magari diffonderlo il più possibile: meglio “spammare contenuti veri e propri che pubblicità. O almeno, questo è quello che farò io.

Alcune delle vostre recensioni [Stella]

A volte basta davvero poco per rendere felice un artista. Per quel che mi riguarda, se il sogno di diventare una scrittrice famosa sembra ancora molto lontano, la consapevolezza di essere riuscita ad emozionare e dare qualcosa a chi ha letto il mio racconto mi riempie davvero molto. Spero che anche voi vorrete condividere con me quello che il mio racconto vi ha lasciato con una recensione, come quella che ha lasciato Stella.

Recensione di “Il giorno in cui non sei più esistito

Recensione di Stella de "Il giorno in cui non sei più esistito"

 

NB: attualmente le recensioni non sono più presenti perchè ho ripubblicato il titolo da zero

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